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Otto temi per la scuola. Una piattaforma per la discussione fra insegnanti e nella scuola.

Il seguente documento è stato presentato e discusso in occasione dell’assemblea del Movimento della scuola dello scorso 5 ottobre. Gli otto temi rappresentano un’interessante piattaforma per avviare un confronto e un dibattito pubblico di cui oggi la scuola ha un urgente bisogno. Per questo motivo riteniamo importante ospitarlo nel dossier DFA: una questione aperta. Il testo è stato finora esaminato in diversi collegi dei docenti di scuola media e media superiore; i colleghi del comitato del Movimento della scuola sono volentieri a disposizione per presentarlo e promuoverlo in altri collegi che ne facessero richiesta.

1. La formazione iniziale e il ruolo culturale dell’insegnante.

All’insegnante è affidato un mandato civile tra i più difficili e significativi: assicurare la crescita umana, intellettuale e culturale della persona. Per farlo egli deve disporre di condizioni politico- istituzionali favorevoli e di un’adeguata formazione. La buona formazione è fondamentale per contribuire a far buoni gli insegnanti. Negli ultimi anni, di fronte ai cambiamenti della popolazione scolastica e alla crisi dei modelli educativi, si è scelto di affrontare il problema con un’accentuazione della formazione pedagogico-didattica, mortificando la dimensione scientifico-culturale e il ruolo politico-educativo della professione. Sono mutati i requisiti per l’ammissione all’insegnamento e significativo è il caso del settore secondario inferiore, dove per l’accesso alla professione si richiede oggi il semplice titolo di bachelor (tre anni di università) mentre si è prolungato l’obbligo di formazione pedagogica fino a quasi due anni.

Si tratta di riforme, sempre imposte dall’alto, senza nessun coinvolgimento degli insegnanti, che non solo hanno modificato i percorsi formativi, ma anche hanno contribuito a ridisegnare il profilo professionale del futuro docente. Noi riteniamo che oggi sia venuto il momento per:

  • una verifica dei percorsi formativi per i docenti dei settori medio e medio superiore (non certo buoni solo per il fatto di essere compatibili con norme intercantonali o internazionali) e una loro riforma;
  • il mantenimento dei requisiti di una formazione culturale solida (master) per l’accesso ai settori del secondario;
  • l’eventuale abbandono della formazione pedagogica a tempo pieno e il ritorno a una formazione in corso di impiego, più efficace e meno punitiva per chi sceglie la professione di insegnante;
  • un serio bilancio degli orientamenti adottati, delle formazioni proposte e della gestione dell’istituto attualmente preposto alla formazione degli insegnanti.

 

2. La formazione continua dei docenti.

Il mestiere dell’insegnante rinvia, per la natura stessa del mandato che lo qualifica, alla possibilità di mantenere vivi in corso di carriera i processi di formazione e di autoformazione. La curiosità intellettuale e il piacere dello studio sono tratti significativi di una professionalità sicura ed è questa la dimensione che oggi deve essere istituzionalmente garantita all’insegnante.

Purtroppo il peggioramento delle condizioni di lavoro (aumento dell’onere lavorativo, accresciuto impegno nella gestione delle classi, nuove attività sollecitate dalla società o legate al funzionamento dell’istituto) ha invece comportato una chiara penalizzazione del tempo disponibile per l’aggiornamento e l’autoformazione. E quando negli ultimi tempi si è tornati a discutere di formazione continua, significativamente lo si è fatto nel senso di un ulteriore aggravio per il docente (per lo più in termini di un aggiuntivo obbligo di certificazione dei percorsi formativi), senza spiegare quale peso si intende dare in futuro alle diverse modalità già oggi previste dalla legge in termini di tempo necessario e di riconoscimento istituzionale. Non è questa, a nostro avviso, la strada da percorrere. Riteniamo invece che:

  • ci si debba chinare sul tema della formazione continua riconoscendo in egual misura tutte le sue dimensioni quali componenti essenziali del mestiere dell’insegnante;
  • all’interno degli impegni professionali debbano essere liberati degli spazi significativi per la formazione in servizio;
  • deve essere garantito il coinvolgimento attivo degli insegnanti nella definizione dei bisogni di formazione;
  • è opportuna la definizione di un sistema di valorizzazione individuale e collettiva della formazione; - devono essere garantiti la pluralità di offerta formativa e il pari riconoscimento istituzionale.

 

3. La progressiva “funzionarizzazione” della professione.

Nel corso degli ultimi vent’anni è affiorato spesso il tema della “professionalizzazione” dell’insegnamento. L’attenzione si è rivolta soprattutto agli aspetti psico-pedagogici e didattici, in una prospettiva che è stata perlopiù di acquisizione di un bagaglio tecnico e operativo. L’insegnante come operatore socio-didattico ha visto così mortificata la matrice intellettuale e culturale della professione. La passione per la conoscenza, la curiosità intellettuale, il piacere dell’approfondimento riflessivo e del dibattito scientifico sono in realtà delle condizioni essenziali dell’insegnamento. Se il maestro se ne allontana smarrisce la propria identità.

Da tempo assistiamo invece al tentativo di ridefinire la professione in termini di funzionariato didattico e di “mansionario tecnicistico”. In un’ottica prevalentemente amministrativa, scarsa o nulla attenzione è rivolta alla dimensione libera del lavoro intellettuale. Quando ci si sforza di definire contabilmente la totalità del tempo di lavoro (vedi i contratti dei docenti della SUPSI), lo si fa attraverso il computo annuo delle ore di lavoro. In altri casi si pensa di cambiare lo statuto di alcune categorie di docenti (è il caso recente dei docenti di sostegno pedagogico delle scuole medie), in modo da farli presenziare più ore in sede ed ostacolare la collaborazione “libera” con i colleghi di materia. Noi riteniamo che la flessibilità e l’autonomia che contraddistinguono il mestiere dell’insegnante siano elementi sostanziali e motivazionali della professione: anzi sono garanzia della qualità con cui si affronta il mandato educativo.

 

4. Le condizioni salariali e di lavoro dell’insegnante.

I mutamenti nella composizione delle classi intervenuti negli ultimi decenni (maggiore eterogeneità linguistica e socioculturale, mutamento dei paradigmi cognitivi e dell’identità culturale dei giovani) nonché il sensibile aumento degli oneri lavorativi (in classe e nel rapporto con gli allievi e i genitori) non sono stati accompagnati da un’adeguata rivalutazione degli aspetti retributivi e neppure da una rivisitazione critica delle condizioni di lavoro. Al contrario l’autorità ha scientemente deciso di ignorare questi mutamenti, mentre una serie di oggettivi peggioramenti ha indebolito l’immagine, la percezione sociale e l’attrattiva della professione di insegnante.

Oggi, in Ticino, il confronto con il trattamento salariale degli altri cantoni svizzeri è impietoso: quasi sempre, e per i diversi ordini scolastici, l’insegnante ticinese è fra i meno pagati. La politica dei risparmi portata avanti dal Consiglio di Stato ha intaccato il quadro retributivo della professione: riduzione del salario d’entrata alla professione, soppressione o riduzione di talune indennità, rincaro annuo non compensato, contributi pensionistici aumentati e prestazioni ridotte. Per i docenti delle scuole cantonali è stato anche aumentato l’onere di lavoro, senza compenso alcuno, e in Ticino (diversamente da quanto accade in altri Cantoni) continua a non essere previsto alcuno sgravio per gli insegnanti ultracinquantenni.

È dunque evidente che la professione dell’insegnante, già oggi poco attrattiva, diventerà sempre meno ambita. Per la qualità del lavoro scolastico è invece indispensabile tornare a investire nell’educazione, sia proponendo dei salari adeguati alla funzione, sia migliorando le condizioni lavorative del docente. Solo così sarà possibile incrementare il numero di interessati e poter reclutare i migliori potenziali candidati. L’attuale situazione delle finanze cantonali occulta in realtà un livello della spesa scolastica nettamente insufficiente.

5. L’attrattiva della professione.

Per far fronte alle sfide della scuola di oggi occorre una politica di reclutamento del corpo insegnante in grado di attirare verso la professione persone di elevato profilo pedagogico e culturale e con alto grado di qualifiche. È invece in senso decisamente contrario che si è intervenuti nel corso degli ultimi quindici anni, nonostante il fabbisogno accresciuto generato da un importante ricambio generazionale, giungendo di recente a discutibili palliativi nelle materie in cui i posti da attribuire superano ormai il numero di candidati idonei.

Considerato l’oggettivo prolungamento della formazione per accedere all’insegnamento, i rischi nel campo educativo per il prossimo futuro ci sembrano concreti. Se ne possono già delineare alcuni:

  • l’insegnamento potrebbe diventare una professione di ripiego, più o meno transitorio, per chi non avrà migliori prospettive;
  • sul piano sociale c’è da attendersi una femminilizzazione della categoria insegnante, ciò che significa – come in passato per altre professioni – una minore considerazione pubblica della professione;
  • la carenza di insegnanti in determinate materie (fenomeno già in atto) può indurre ad assumere candidati non idonei e all’offerta, da parte del datore di lavoro, di facili scorciatoie nel percorso di formazione disciplinare, con le conseguenze che tutti possiamo immaginare;
  • è da ipotizzare un crescente ricorso all’assunzione di docenti provenienti dall’estero (con titoli riconosciuti dalla CDPE), i quali hanno spesso una scarsa conoscenza della nostra realtà scolastica.

Di fronte a queste prospettive, tutt’altro che pessimistiche, noi pensiamo sia necessario un impegno politico a salvaguardia del prestigio e dell’attrattiva della professione di docente.

 

6. Il “fare scuola”: modelli e condizioni mutate.

Insegnare oggi è più difficile rispetto al passato. La scuola è confrontata con una situazione complessa, caratterizzata da crescenti diversità culturali, linguistiche, cognitive, sociali, religiose. Gli allievi vivono in un contesto mediatico dove tutto cospira a indebolirne la definizione di luogo preposto allo studio, alla riflessione, all’acculturazione. Da istituzione consacrata alla formazione della persona, la scuola ha progressivamente ridisegnato il suo profilo in termini di servizio educativo in grado di soddisfare ogni esigenza. L’allievo e le famiglie hanno assunto così le vesti di “clienti” in una società che demanda alla scuola dei compiti educativi a largo spettro e contemporaneamente esige un’alta qualità dell’istruzione e una progressiva finalizzazione del sapere.

Se vuole fare bene il suo lavoro, l’insegnante deve tenere conto dei contesti socioculturali e familiari nei quali i suoi allievi crescono, dei loro comportamenti individuali e di gruppo, come pure di possibili disturbi specifici legati all’apprendimento e ai nuovi paradigmi culturali. Ma tutto e da solo il docente non può fare. Anzi emerge la consapevolezza di una sostanziale inefficacia del proprio ruolo, che spesso poi produce insoddisfazione se non senso di impotenza e in taluni casi l’accentuarsi di sindromi di burnout.

Crediamo sia ormai giunto il momento per un intervento a favore del docente e dell’insegnamento, per esempio attraverso una sensibile riduzione degli effettivi di classe, il potenziamento dei servizi di accoglienza e di sostegno pedagogico e l’aumento delle risorse a disposizione degli insegnanti che assumono il ruolo di docente di classe.

 

7. Harmos: l’insegnamento e l’insegnante sotto pressione.

Il progetto Harmos, che il Ticino ha sottoscritto, non comporta solo il principio di un’armonizzazione dei sistemi educativi e di un adeguamento delle strutture scolastiche. Di fatto, dietro questi aspetti risibili della riforma affiora una concezione strumentale dell’attività didattica. La volontà politica di misurare il rendimento dei sistemi formativi esercita un influsso sugli obiettivi dell’insegnamento e sul modo di fare scuola. Una seria valutazione dei risultati ottenuti è un obiettivo valido e imprescindibile, ma è fortemente riduttiva la scelta di operare questa misurazione unicamente attraverso degli standard nazionali. Una valutazione standardizzata porta inesorabilmente a misurare solo ciò che è misurabile, trascurando ciò che sarebbe veramente importante valutare; passare dal “misurare ciò che si è insegnato” all’“insegnare ciò che sarà misurato” costituisce un passo breve.

Il lungo elenco di nuove responsabilità formative (le varie “educazioni”) introdotte nella scuola, la concezione del lavoro educativo in un’ottica puramente strumentale, la scelta (illusoria) di incentivare la qualità mediante misurazioni del tipo sopra accennato sottopongono l’insegnante e gli allievi a una pressione inaccettabile e sacrificano una seria formazione di base.

L’articolo 2 della Legge della scuola (Finalità) non lascia invece dubbi su quale sia il suo mandato civile e culturale: La scuola promuove...lo sviluppo armonico di persone in grado di ...realizzare le istanze di giustizia e libertà ... In particolare educa la persona alla scelta consapevole di un pro- prio ruolo attraverso la trasmissione e la rielaborazione critica e scientificamente corretta degli e- lementi fondamentali della cultura in una visione pluralistica e storicamente radicata nella realtà del Paese.

 

8. Riforme scolastiche, idealità e finalità educative.

Nel campo educativo gli ultimi decenni sono stati indubbiamente ricchi di cambiamenti, ma avari di riflessione partecipata. Il susseguirsi delle riforme ha tradotto operativamente un senso di disagio che ha coinvolto gli insegnanti e i sistemi scolastici. L’insistenza con la quale si è fatto ricorso a cosiddetti principi di qualità ha mascherato una crisi profonda dei paradigmi educativi. L’inefficacia di formule, metodologie e procedure è apparsa evidente quando non accompagnate dalle necessarie risorse finanziarie e da un’idealità politica e pedagogica capace di attribuire loro senso e pregnanza. Se gli anni ’60 e ’70 del secolo scorso erano stati determinanti per il dibattito sulla scuola e la motivazione degli insegnanti all’interno di un disegno ideale di democratizzazione degli studi, il trentennio successivo è invece stato caratterizzato da numerosi aggiustamenti del sistema pedagogico a cui ha fatto difetto un adeguato contesto ideale e un concreto coinvolgimento dei docenti. I luoghi decisionali e della riflessione pedagogica si sono progressivamente spostati fuori cantone ed il modello proposto dall’OCDE o dagli organi dell’UE è distante anni luce dai principi che sin qui hanno retto la nostra scuola.

Il mondo della formazione è oggi attraversato da una profonda crisi, al punto che si parla sempre più di emergenza della questione educativa. Ciò che è messo in discussione è la possibilità di educare e il senso stesso dell’educare. L’apertura di un dibattito pubblico intorno alla definizione delle politiche scolastiche è una condizione ineludibile per un miglioramento della scuola. A quali finalità essenziali deve rispondere oggi il sistema educativo? Le difficoltà che appaiono sempre più nei passaggi da un ordine di scuola all’altro (SE – SM – SMS / Settore professionale) o ancora, la problematicità di un sistema formativo complesso qual è quello della scuola media ticinese, sono segnali chiari di un momento critico al quale si deve rispondere con l’apertura di un dibattito pubblico.

Gli insegnanti, soprattutto, devono avere le condizioni e la possibilità per tornare a essere protagonisti di questo dibattito.

 

Movimento della Scuola

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