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Pochissima apertura al dialogo. La voce degli studenti

L’insoddisfazione sembra caratterizzare da almeno una decina d’anni la vita degli abilitandi all’insegnamento. Già fortemente criticata sotto il cappello IAA, diventato poi ASP, la formazione degli insegnanti sembra essere ulteriormente peggiorata con il passaggio al DFA. Si moltiplicano infatti le voci che deplorano un crescente scollamento tra la formazione teorica e la realtà quotidiana delle sedi scolastiche, accresciuto dalla presenza di diversi nuovi formatori senza esperienza d’insegnamento e con una scarsa conoscenza della realtà ticinese.

Per cogliere meglio i nodi principali di quanto sta accadendo a Locarno, ci siamo intrattenuti con sei abilitandi e neo-abilitati Master (per l’insegnamento nella scuola media e medio superiore).

Gli intervistati hanno espresso il desiderio di mantenere l’anonimato. La redazione conosce i loro nominativi.

Quale è il clima in generale? Di che ordine sono i principali problemi incontrati dagli studenti?

- Gli studenti non vedono l’ora di terminare la formazione, spesso troppo distante dalla realtà quotidiana della scuola. Il clima generale è di sfiducia e sconforto. Spesso si ha l’impressione che molti docenti del DFA non tengano in considerazione il fatto che abbiamo tutti un percorso accademico alle nostre spalle, il modo in cui veniamo trattati ed il livello di molti corsi non credo siano degni di una scuola universitaria.

- In generale, è difficile raccontare come si vive la formazione al DFA, bisogna viverla per capire.

- Il problema più grave e che ci sembra stia peggiorando è che la maggior parte dei formatori non ha esperienza nella scuola media e spesso neppure un legame con il territorio. Alcuni hanno insegnato alle scuole elementari e si nota dalle problematiche o dagli esempi di attività proposte che non sono pertinenti per un contesto di scuola media o medio superiore.

- La grande maggioranza dei corsi non ha un’utilità diretta per l’insegnamento, la didattica e l’accompagnamento occupano una minima parte della formazione.

- L’impressione è che il DFA – per rispettare le raccomandazioni della CDPE (passaggio da 1 a 2 anni di formazione e aumento dei crediti ECTS) - abbia improvvisato dei corsi per poter raggiungere il quantitativo di crediti necessari, senza curare il contenuto. Basso livello, ripetizioni, confusione, scollamento con la scuola… fanno parte della quotidianità al DFA.

- Diciamo che i due anni trascorsi al DFA sono stati praticamente inutili. Le esperienze di pratica professionale mi hanno formato come docente, ma nessuno del DFA mi ha dato veramente dei consigli per migliorarmi giorno dopo giorno. È solo grazie ai colleghi, alla direzione della sede in cui ho svolto la pratica che ho conosciuto il mondo della scuola e le sue dinamiche.

-Le difficoltà partono comunque già dal momento della selezione per l’ammissione al DFA.

Come si svolge l’ammissione al DFA per la formazione Master?

- Due anni fa, abbiamo dovuto affrontare una doppia prova: un colloquio individuale inerente la propria disciplina ed un test di ordine psico-pedagogico. In gruppo, siamo stati messi in situazione: eravamo su di uno yacht che stava bruciando, dovevamo quindi salire sul canotto di salvataggio e scegliere da una lista prestabilita quali oggetti portare sul gommone. Per fare questo, dovevamo designare un leader del gruppo e giungere ad un elenco comune degli oggetti. Al termine dell’esercizio si trattava di esprimere le sensazioni provate: sentimento di prevaricazione da parte del leader, frustrazione perché un oggetto che volevamo portare non era stato scelto dal gruppo, disagio,… Ne è seguito un colloquio individuale. Siamo tutti rimasti sbalorditi dal tipo di test d’entrata per una scuola universitaria e per valutare l’attitudine all’insegnamento. Come hanno poi scelto chi accettare al DFA e chi escludere? Diciamo che è stato significativo di quanto avremmo dovuto affrontare in seguito.

- Anche nel mio gruppo siamo stati molto infastiditi dal test psicologico d’entrata. Sulla base di quali criteri è stata valutata la nostra attitudine all’insegnamento attraverso il gioco dello yacht?

- Ora il gioco è stato sostituito dalla redazione di un dossier, che viene poi discusso in sede di colloquio. Tuttavia, i criteri d’ammissione continuano a non essere chiari e si ha l’impressione che gli esaminatori godano di un eccessivo margine di manovra personale.

- Rimane il problema del legame con la realtà locale. Sembra che nell’ammissione il titolo di studio conseguito abbia un peso non determinante, ma pur sempre assai rilevante. Sarebbe bello sapere concretamente quanto invece contino la conoscenza del territorio o delle istituzioni per coloro che ad esempio vorrebbero insegnare materie umanistiche.

- Ci sono anche problemi legati al riconoscimento di abilitazioni conseguite in altri cantoni. Un mio compagno si era abilitato a Zurigo, ma il titolo non era riconosciuto in Ticino. La direzione del DFA gli aveva suggerito di chiedere il riconoscimento in Italia, in modo che sarebbe poi stato possibile chiedere l’equivalenza per insegnare nella scuola ticinese.

- Inoltre, vi sono sempre più formatori che non hanno esperienza d’insegnamento e danno l’impressione di non conoscere la realtà della nostra scuola. Sono però loro a decidere chi può essere ammesso alla formazione.

La presenza sempre maggiore di formatori che non hanno esperienza d’insegnamento e non conoscono la realtà scolastica ticinese è una tendenza evocata da più voci, ma negata da alcuni responsabili del DFA. Ci siamo infatti chiesti come mai il sito internet dell’ASP presentava i profili dei formatori (curriculum vitae, esperienze professionali, pubblicazioni) mentre quello del DFA non pubblica queste informazioni.

- Vi sono dei formatori che danno l’impressione di non sapere a cosa siamo confrontanti quando entriamo in un’aula. Significativo a questo proposito è il concorso dell’anno scorso con cui il DFA metteva a disposizione un posto di docente-ricercatore in storia. Per insegnare al DFA era richiesto un master, mentre l’esperienza d’insegnamento rappresentava “titolo preferenziale”. Il posto di lavoro è andato infine ad una persona competente, ma sulla carta anche dei neo-abilitati avrebbero potuto parteciparvi. Il messaggio di non ritenere l’esperienza sul campo un fattore fondamentale lascia parecchia perplessità. In generale, per certi corsi manca un legame diretto con quelli che sono i problemi degli allievi e di conseguenza mancano i suggerimenti o le proposte volti a risolverli. Discutendo con i colleghi del mio anno si sentiva la necessità di esempi concreti che per quanto esposto sopra non sempre potevano essere proposti dai docenti dei corsi. Si torna al punto di prima: per essere formati occorrono persone con esperienza.

- Un mio compagno di corso, al momento dell’iscrizione mi ha detto di aver compilato ed inoltrato per errore il formulario di candidatura ad un posto di formatore, non si era accorto in quanto possedeva tutti i requisiti richiesti. Una situazione paradossale!

- È abissale la differenza tra i corsi dei formatori che conoscono la realtà con la quale siamo confrontati e i corsi di quelli che non la conoscono e che non possono quindi trasmetterci ciò di cui abbiamo bisogno. Inoltre, è frustrante e demoralizzante assistere al progressivo impoverimento dei contenuti e dell’utilità pratica di molti corsi, in particolare con i nuovi formatori. Molti di loro, provenendo dall’estero, oltre a non avere esperienza sono anche allo sbaraglio rispetto alla realtà della scuola ticinese, non la conoscono.

- Prendiamo l’esempio del corso ICT (Information and communications Technology), anche questo piuttosto deludente da un punto di vista pratico, non c’era nessun legame con la propria disciplina. Ci saremmo aspettati piuttosto dei suggerimenti su come integrare questi strumenti nelle nostre lezioni, invece anche in questo caso il discorso resta molto astratto, troppo generale e superficiale, come quando abbiamo trascorso un pomeriggio intero ad ascoltare la presentazione della piattaforma Educanet2. So che il DFA organizza degli ulteriori corsi per la formazione continua, però forse sarebbe il caso di potenziare l’insegnamento anche per i due anni di abilitazione.

- I corsi non davano modo veramente di apprendere le “tecniche” per essere un insegnante più brillante e stimolante per gli allievi. Cosa posso fare se un allievo ha un atteggiamento negativo in classe nei confronti di docenti, compagni e materia? Cosa posso fare per aiutare un allievo dislessico? Cosa posso fare per aiutare i ragazzi più deboli? Cosa posso fare per stimolare maggiormente coloro che hanno un buon rendimento? Come posso dialogare in modo costruttivo con le famiglie? Sono tutte domande che non hanno trovato suggerimenti sui banchi del DFA (che sulla carta dovrebbe formare i docenti), ma unicamente nei momenti di pratica professionale nelle varie sedi scolastiche.

- Le rare occasioni in cui riuscivamo a portare delle situazioni o dei casi problematici concreti da discutere, venivamo suddivisi in gruppi per elaborare possibili soluzioni. I formatori presenti non ci davano però nessun feedback, schierandosi dietro l’affermazione secondo cui “non ci sono ricette”. Visto che comunque si trattava di situazioni realmente vissute e che avremmo dovuto affrontare, ci aspettavamo perlomeno qualche vago suggerimento.

- I momenti interessanti e vissuti come positivi erano quelli in cui venivano invitati dei docenti (DPP, docenti di classe, direttori,…) a presentare l’uno o l’altro tema inerente la didattica o la vita di sede.

 Il principale cavallo di battaglia del DFA è quello della terziarizzazione, dell’innalzamento del livello rispetto all’ASP attraverso il rafforzamento del carattere accademico della formazione, grazie all’alto profilo dei suoi formatori.

- Come studenti ci siamo spesso ritrovati ad affrontare interi pomeriggi di gioco o attività particolari, in alcuni casi senza che ci fosse spiegato il senso e l’utilità di quanto stavamo facendo. Senza viverli è difficile crederci. Per esempio, al corso sulle competenze socio-relazionali del secondo anno abbiamo dovuto fare un’intervista reciproca tra studenti spiegando perché abbiamo scelto questa professione, quali sono le nostre paure,… (ovvero cose già dette sia al momento dell’ammissione alla scuola, sia ripetute più volte nel corso del primo anno!). Poi, seduti in cerchio, ognuno è stato invitato a indicare ai compagni “se fossi un fiore, un animale o una pianta, quale sarei”. In un’altra occasione dovevamo toccare le mani di un compagno e spiegare le sensazioni percepite in quel momento. Molti dei miei compagni si sono rifiutati di proseguire il corso poiché per l’ennesima volta si sentivano presi in giro dalla scuola.

- Un altro problema comune a parecchi corsi è il fatto di dover ascoltare per ore, nonché per settimane uno stesso concetto che potrebbe venir presentato in un lasso di tempo assai minore. Tra colleghi serpeggiava una certa frustrazione.

- Molti di noi hanno l’impressione che taluni corsi siano di una certa lunghezza solo per poter attribuire al modulo di cui fanno parte il numero di crediti prestabilito dal piano di formazione. La maggior parte dei corsi potrebbero essere condensati in molto meno tempo: si ripetono troppo spesso le stesse cose. Per il modulo conoscere la scuola media, abbiamo trascorso ben quattro ore in visita ad una scuola nel secondo semestre, ossia quando tutti noi ormai conoscevamo già il funzionamento di una sede, svolgendo da svariati mesi la pratica professionale in una scuola: ennesima riprova di come sovente non veniamo trattati da adulti.

- Si percepisce la mancanza di un programma valido, pertinente e coerente. Alcuni formatori si sono limitati ad invitare persone esterne senza quasi mai far lezione loro, molti non hanno mai mostrato un legame con la scuola reale. Anche le ripetizioni nelle richieste da parte di vari formatori erano sintomatiche di una mancanza di coordinamento tra i vari corsi.

- Il basso livello dell’insegnamento è evidente anche dalla qualità e dalla quantità dei materiali necessari per la preparazione delle validazioni dei corsi. Vi è un abisso tra le esigenze per l’ottenimento di ECTS nel corso degli studi universitari ed i materiali scarni, semplici e ripetitivi del DFA.

La formazione è organizzata a moduli, ognuno dei quali permette di accumulare determinati crediti. Come sono organizzate le certificazioni dei corsi?

- A dire il vero non si capisce molto, è difficile rispondere perché molto dipende dal corso di cui si sta parlando. Abbiamo già parlato del modulo ICT, dove la validazione si limitava a scrivere un post su di un blog e fare una riflessione di gruppo. Oppure per il corso di pedagogia, dove era sufficiente scrivere un diario con una riflessione personale. Per un altro modulo, invece, abbiamo avuto un esame scritto di tre ore. Manca coerenza.

- Concordo, ci sono troppe disparità nelle richieste per le varie certificazioni. Anche la mole di lavoro per la didattica varia troppo da materia a materia. Sono anch’io rimasto sbalordito di dover scrivere in un blog per la certificazione del modulo ICT. Il problema delle certificazioni è ampio, e sono molto contestate dagli studenti. Spesso infatti siamo chiamati a fare qualcosa di cui si è parlato in classe solo marginalmente o per la cui realizzazione i contenuti del corso sono pressoché inutili.

- Come si può certificare un corso sulle nuove tecnologie unicamente sulla base di una riflessione personale su di un blog? Siamo stati valutati sul nostro pensiero, la nostra opinione su di un determinato tema e non su conoscenze acquisite (tranne la capacità tecnica di accedere ad un blog e pubblicarvi un commento).

- Lo stesso discorso vale per la valutazione basata su un resoconto della propria evoluzione nel percorso affrontato in classe a partire da un diario personale. Ognuno ha la sua percezione, non c’è possibilità di verifica da parte del formatore. Nel nostro gruppo, si passava tra l’altro più tempo a discutere dei problemi suscitati dal corso che non a svolgere il corso stesso.

- Possiamo fare la stessa riflessione a proposito della valutazione del Portfolio, un documento in cui ogni studente deve scrivere il proprio percorso nell’acquisizione di determinate competenze, annotare le difficoltà incontrate, esprimere considerazioni molto personali. È pertinente che poi tali aspetti soggettivi vengano valutati da un formatore che non possiede gli elementi del contesto entro cui tale percorso si è sviluppato? Su quali basi viene valutato il Portfolio?

- Certo, è lecito chiedersi su quali basi vengano valutati alcuni di questi lavori, centrati unicamente su considerazioni personali.

Avete parlato di corsi tirati per le lunghe, di giochini pedagogici… Come valutate il peso relativo attribuito alla didattica, alle scienze pedagogiche ed alla ricerca?

 - L’equilibrio tra didattica, pedagogia e ricerca non è funzionale se teniamo conto del fatto che siamo lì per poi insegnare nella scuola. La didattica andrebbe assolutamente potenziata, se gestita però da formatori con esperienza d’insegnamento e che conoscono la nostra realtà scolastica. Mentre sarebbe da limitare la dimensione di ricerca, che invece viene molto valorizzata dalla scuola e per la quale sono stati anche aumentati i crediti, quindi il peso all’interno della formazione. Stiamo anche assistendo ad un tentativo di marginalizzazione della didattica dal lavoro di diploma. Questo rafforza la distanza tra l’abilitazione e la scuola reale in cui lavoreremo. La direzione del DFA auspica sempre più la scelta di argomenti innovativi in ambito pedagogico a scapito di lavori centrati attorno a percorsi didattici nella propria disciplina. Il sentimento è che, per quanto assurdo possa apparire, ciò che è più necessario per quella che sarà la nostra professione perde costantemente valore all’interno della formazione, si trova sempre più ai margini.

- Sono d’accordo che la ricerca sta prendendo troppo spazio. Tra l’altro è uno dei corsi più contestati dagli studenti ed ha quasi lo stesso numero di ore della didattica.

- Un corso, quello di ricerca in educazione, in cui ci siamo sentiti trattati come ragazzini senza esperienza come se non avessimo mai fatto ricerca prima. Ognuno di noi ha affrontato seminari universitari ed una tesi di laurea. Eppure, ci siamo sorbiti per un semestre le innumerevoli consegne procedurali per la redazione del lavoro di diploma. Altro che tirare per le lunghe...!

- Infatti, dopo tanti seminari e altri lavori di ricerca svolti all’università mi devo sorbire un corso per principianti in merito alla ricerca? Basta!

 Dalle vostre affermazione emerge la sensazione che al DFA manca anche una struttura di coerenza organizzativa, sembra si stia piuttosto navigando a vista…

 - Mi sembra ci siano parecchi problemi organizzativi, sia inerenti l’orario e la programmazione delle lezioni, come ha già spiegato il mio collega, sia legati alla struttura stessa del curricolo di formazione. Mi riferisco in particolar modo agli studenti di una doppia abilitazione, che si ritrovano quest’anno a dover insegnare prevalentemente la propria seconda materia senza mai averla insegnata l’anno precedente, e in taluni casi senza nemmeno aver assistito ad una singola lezione della disciplina. Non tutti ricevono dunque gli strumenti necessari per svolgere il loro lavoro adeguatamente.

- Vi sono alcune scelte organizzative che ci hanno lasciati un po’ perplessi. Ad agosto è stato organizzato un corso sull’orientamento professionale mentre il corso sulla docenza di classe che trattava anche il tema dell’accoglienza degli allievi il primo giorno di scuola e proponeva alcune possibili attività di conoscenza reciproca da fare con i ragazzi è stato svolto quando ormai i neo docenti di classe si erano già dovuti arrangiare. Un altro esempio di disorganizzazione si è presentato con il portfolio: abbiamo passato mesi per cercare di capire cosa bisognasse effettivamente fare. In questi due anni è capitato che ci fossero continui cambiamenti di direttiva e che non sempre ci fosse chiarezza, non solo nei nostri confronti, ma anche verso i docenti, che a loro volta di conseguenza non erano in grado di fornirci delle informazioni definitive.

- Questo riguarda anche i percorsi curricolari, rispetto ai quali non sono state mantenute delle promesse o non sono state garantite le pari opportunità. Due esempi. Durante i colloqui d’ammissione al DFA per l’anno accademico 2009/10 era stata garantita la possibilità di abilitarsi in italiano sia per le scuole medie che per il settore medio superiore. Al termine del primo anno è stato invece annunciato che i corsi per l’abilitazione liceale non sarebbero stati organizzati. L’altro esempio riguarda diversi studenti che si abilitano in due materie e che, a causa della sovrapposizione di lezioni, non hanno la possibilità di seguire la didattica disciplinare di entrambe le materie.

- Da un punto di vista puramente finanziario non si capisce per quale ragione gli studenti del secondo anno debbano pagare la stessa tassa sulle fotocopie quando hanno meno corsi, ricevono meno materiale dai docenti e sono a Locarno un giorno a settimana al posto di quattro.

- Non solo le fotocopie, ma anche la tassa d’iscrizione era identica, non è giusto. Direi che si tratta di una rapina, soprattutto per chi non ha la possibilità di pagarsi gli studi e dipende ancora da qualcuno.

 La situazione che descrivete è molto critica e preoccupante. A vostro avviso, cosa permetterebbe di migliorare la qualità della formazione degli insegnanti?

- Io sono dell’idea che una formazione della classe docenti sia opportuna e necessaria, ma le basi sulle quali si fonda l’insegnamento del DFA sono del tutto inadeguate. Bisogna aiutare gli abilitandi a comprendere, ad assimilare, a conoscere tutte le tecniche positive e necessarie per diventare un buon docente, sia esso di scuola media o media superiore. La teoria può starci fino ad un certo punto, ma la pratica sul campo e i consigli da parte di chi ha un solido bagaglio di esperienza sono a mio modo di vedere fondamentali.

- Innanzitutto, bisognerebbe rafforzare la didattica, dovrebbe essere l’aspetto preponderante nella nostra formazione, sia a livello teorico sia aumentando la pratica professionale, magari potendo insegnare anche la seconda materia già al primo anno, seguiti da un DPP. È però fondamentale che i docenti di didattica abbiano un’esperienza d’insegnamento nell’ordine di scuola per il quale preparano altri docenti ed altrettanto importante è che conoscano bene il funzionamento della scuola ticinese.

- Qui non si tratta di opporsi – per principio – alla presenza di formatori stranieri. Vi è infatti un esempio positivo, quando è intervenuta una vera luminare nella didattica della mia materia. Purtroppo non è la realtà dei numerosi formatori a cui manca non solo la conoscenza della nostra realtà locale ma anche l’esperienza!

- Un altro aspetto è che vengono condensati i contenuti di molti corsi (possiamo tranquillamente farvi la lista), che hanno degli aspetti interessanti se illustrati in un pomeriggio o nell’arco di sei-sette ore, ma non se ripetuti settimanalmente per quattro mesi!

- Credo che le maggiori priorità siano appunto migliorare il legame del DFA, e dei suoi formatori, con il territorio, dare maggiore peso ai moduli professionali e alla didattica e in generale improntare maggiormente le lezioni su un approccio pratico e concreto.

- Per me è necessario rivalutare l’intera struttura della formazione e dare maggior spazio a corsi vicini all’esperienza scolastica, togliendo peso alla ricerca in educazione. È anche necessario rendere i corsi di scienze dell’educazione spendibili nella propria pratica professionale e questa va potenziata già al primo anno.

- Si tratta inoltre di considerare gli studenti come delle persone adulte e laureate, attribuendo maggior considerazione alle loro osservazioni e richieste. Ora vi è pochissima apertura al dialogo, ma una difesa di principio incondizionata su tutto quanto ruota attorno al DFA.

- Infine, manca coerenza tra formazione e successivo lavoro, non vi è intesa nei contenuti tra chi ci forma e chi poi ci valuterà per l’assunzione. Esci dal DFA e quello che hai fatto non ha più nessun valore, gli esperti di materia hanno tutt’altri criteri di valutazione.

- Ci sono stati anche dei problemi con alcuni DPP, segnalati alla direzione del DFA, la quale però non è intervenuta per il semplice motivo che queste figure scarseggiano e quindi è necessario tenere tutti, a prescindere…

- Un discorso che sembra valere anche per taluni formatori, quando tutti sono scontenti e si chiedono cosa ci facciano lì, in una scuola universitaria per docenti…

 

Testimonianze raccolte da Claudia De Gasparo