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Editoriale

Si avverte un fastidioso senso di stantio nel leggere la documentazione relativa alla revisione della LORD e della legge sugli stipendi, di recente approvata dal nostro legislativo e contro la quale è stato lanciato il referendum. Questa riforma ha avuto una lunga gestazione nell’ambito del progetto Gestione delle Risorse Umane 2000, che a sua volta trae linfa dall’humus neoliberista, che dagli anni Novanta influenza e condiziona l’azione politica anche nel nostro Cantone. Il linguaggio del testo di legge attinge largamente al vocabolario dell’aziendalismo ed è farcito di termini dal significato spesso oscuro, comunque sfuggente. Flessibilità e mobilità, competenze, obiettivi e valutazione, efficienza, “nuova cultura aziendale” dovrebbero plasmare il futuro “servizio al pubblico” e i loro dipendenti, con una politica del personale “meno garantista in termini di automatismi retributivi”.

Questa riforma viene quindi da lontano, in anni in cui qualità ed efficienza sono state vantate dogmaticamente come prerogativa esclusiva del privato, che non risparmiava attacchi allo Stato e alla sua amministrazione, descritta come il regno di privilegi, corporativismo e scarsa produttività. Poi la bufera finanziaria ha scosso profondamente l’arroganza di tanta sicumera e d’incanto lo Stato tanto vituperato è provvidenzialmente intervenuto a gettare salvagenti dorati a una new econmy agonizzante.

Si ricorderà pure che quella è stata l’effimera  stagione delle certificazioni di qualità. Al motto di “tutto si può migliorare”, aziende, uffici e anche scuole hanno ceduto alla seduzione di un macchinoso processo di controllo della qualità, secondo modelli partoriti dalla cosiddetta filosofia aziendale, che hanno sfornato, a costi tutt’altro che irrisori, una massa di certificazioni, di cui oggi più nessuno parla (dove sono i furgoncini che ostentavano sulla carrozzeria le certificazioni ISO?). Quali concreti esiti ha prodotto questo attivismo valutativo? In cosa, se prendiamo il caso delle scuole, sono migliori le sedi certificate rispetto alle altre? Tutto è finito nel silenzio come tanti progetti di cui non si sono mai conosciuti i risultati.

Le principali novità della legge, che sono pure le più contestate dalle associazioni sindacali, sono la “definizione di obiettivi realizzativi precisi ed oggettivamente misurabili”, la valutazione delle prestazioni individuali, l’evoluzione salariale degli impiegati, il salario al merito in sostituzione degli attuali scatti automatici. Sono anche previsti aumenti di stipendio per gli alti funzionari e la possibilità di concedere delle “gratificazioni straordinarie”.

Quali disfunzioni e disservizi affliggono attualmente la pubblica amministrazione per giustificare come rimedio una revisione di legge così incisiva? Dai testi ufficiali si ricavano solo generici cenni relativi “all’ottenimento di una maggiore  efficienza”, a “un nuovo modo di concepire la politica del personale”, alla necessità di un sistema remunerativo più flessibile.

Dichiariamo subito che il demerito nel pubblico impiego va stigmatizzato e sanzionato con fermezza, ma per stanare i “furbi”, e punire abusi e disimpegno, esistono già nell’attuale normativa ampi margini di intervento. Si va dagli ammonimenti fino alla disdetta del contratto, passando per le misure intermedie delle multe, del blocco degli scatti e delle riduzioni salariali. Si giustifica quindi, in nome di un miglioramento del servizio, un complesso sistema di valutazione fondato sulla meritocrazia che mette sotto pressione tutti i dipendenti?

A nostro avviso, clientelismo e lottizzazione partitica sono i veri mali che attanagliano l’amministrazione cantonale e dubitiamo fortemente che questa riforma sia pensata per estirparli. Nel messaggio governativo si sostiene che “il processo di selezione e assunzione tende ad assicurare all’Amministrazione le migliori risorse umane”, ma questa enunciazione di intenti continua ad essere sistematicamente disattesa. Quante volte al merito personale, alle referenze qualificate si sono anteposte la tessera del partito, la logica del “piazzare i nostri”, lo strizzare l’occhio all’amico dell’amico?

Temiamo invece che la ricerca di maggior efficienza attraverso la meritocrazia possa determinare esiti indesiderati. Inevitabilmente comporterà un carico di burocrazia per definire gli obiettivi e le griglie di misurazione, per valutare le prestazioni e gestire i colloqui personali e i probabili reclami. Potrebbe seriamente avvelenare il clima di lavoro a detrimento della collaborazione, alimentare rivalità, personalismi e rancori. Come reagirà infatti chi si sentirà ingiustamente trattato? Si potrebbero inoltre sviluppare, atteggiamenti di compiacenza passiva alle visioni del superiore o di mortificazioni di idee alternative o critiche e la logica partitica farebbe sentire ancor di più i propri deleteri effetti.

L’impiego pubblico rappresenta un modello apprezzabile e imitabile: rispettoso dei principi moderni di diritto del lavoro, garante dell’equità salariale tra uomini e donne, tendenzialmente sensibile alle pari opportunità, attento all’inserimento professionale dei portatori di handicap. Ora la certezza contrattuale e retributiva potrebbe venir soppiantata dall’aleatorità della valutazione, sempre soggettiva, dalla discrezionalità, forse pure dall’arbitrio.

Nel messaggio governativo si rimarca che presso la Confederazione e nella maggior parte dei Cantoni è in vigore il sistema salariale basato sulle prestazioni. Resistono i romandi, che mantengono il principio dell’anzianità di servizio. Ci sorge allora spontanea una domanda conclusiva: la pubblica amministrazione di Ginevra è così poco attrezzata per affrontare le nuove sfide o risulta meno efficiente di quella di Zurigo, dove vige il potente stimolo del salario al merito?